“La civiltà moderna è essenzialmente dinamica, guerriera e conquistatrice”. La dichiarazione asciutta e forte, apparsa sulla Gazzetta di Venezia del 1901, annunciava lo spirito di un secolo, il Novecento, in cui l’ubriacatura della tecnica fece immaginare uno sviluppo eterno e onnipotente, una sfida prepotente, in particolare alla natura che apparve subito come il più imprevedibile degli ostacoli verso la marcia del progresso. E’ il secolo della guerra come “igiene del mondo” e dunque dell’avvio della ricerca finalizzata a produzioni utili agli apparati militari, oltre che all’industria pesante, e della sperimentazione dei risultati in fortificazioni e casematte che, per l’occasione ospitano esemplari modelli di tecnologia d’avanguardia e spazi ripensati in chiave di funzionalità e modernità, piccole città armate di cannoni e tecnica.
Nella Spinea del primo decennio del ‘900, immediata periferia agricola del margine lagunare, non c’è ancora segno del boom demografico che cambierà radicalmente l’area, per cui i lavori di costruzione di forte Sirtori, caposaldo della seconda cinta difensiva della frontiera venet , s ’ i m p o n gono nel profilo del paesa g g i o, alla stregua di una sperimentazione, una città in scala fatta per soldati e ufficiali, dotata di spazi e strutture ben ordinate visibilmente ispirate ai criteri dell’aggressività, dell’ordine e della funzionalità in un mixer estraneo ai ritmi e alle relazioni della cultura contadina ancora maggioritaria in quel luogo.
Una novità che ha tuttavia il senso di una profezia. Questo è infatti il primo spaesamento a cui, nei decenni successivi, seguiranno altri di assai più radicali e sconvolgenti al punto da trasformare l’area spinetense così profondamente e rapidamente da rendere invisibile il succedersi delle fasi che la riducono da area agricola a grande e indistinta periferia urbana.
Qui il tasso altissimo di consumo del territorio per nuove urbanizzazioni genera fenomeni sociologici particolari, la mancanza assoluta di pianificazione finisce con l’anticipare, in negativo, un modello metropolitano, una città dilatata in cui si sperimentano comportamenti e culture antagoniste alla fabbrica amata e odiata e si delinea l’assenza di identità come condizione esistenziale e il non-luogo come nu ova forma egemone del paesaggio contemporaneo.
Il destino recente di Spinea (come tutta la cintura mestrina) spezza, nei fatti, il progetto di accogliere l’esistenza operaia in luoghi ameni, oggi si direbbe “sostenibili”, e diventa la prosecuzione incontrollata e contraddittoria della città-giardino di Marghera, il fallimento di ogni velleità di pianificazione che aveva illuso la borghesia industriale veneziana. Come succede in quasi tutte le periferie sorte dallo straboccare di aree industriali a sviluppo intensivo, la memoria storica non è più rintracciabile nel processo di emersione e riconoscimento di qualche scampolo ambientale e culturale disperso nel territorio e sfuggito all’indistinto macinare di cementi e asfalti o affidato alla trasmissione orale dalla tradizione e dall’esperienza, la violenza e la rapidità della trasformazione sono state tali da non aver risparmiato quasi nulla, se non i segni inamovibili, i mausolei del secolo delle illusioni di cui forte Sirtori è, forse, l’esempio più leggibile e completo. La sua dimensione, i suoi spazi, le sue strutture conservano integro tutto il loro senso originale , diventano monumenti storici e dunque icone di memoria, non solo per aver anticipato la frenesia del secolo industriale, ma perché i cambiamenti annunciati che hanno travolto ogni cosa, hanno finito col restituire alla struttura, per sottrazioni progressive, una sua propria originale identità. Questo forte è a Spinea, dove il concetto di non-luogo trova estese applicazioni, uno dei pochi luoghi riconoscibili da cui è possibile partire per ricostruire il percorso delle trasformazioni della modernità, i loro esiti e il miracolo delle sopravvivenze ambientali e storiche in senso lato, ancora visibili intorno.
Ha senso fare di forte Sirtori un punto eccellente di osservazione e di sperimentazione nella didattica della natura e dell’ambiente, non solo per l’evidente ragione che la natura ha già in parte recuperato, con la sua forza tranquilla, i caratteri guerrieri della struttura trasformandoli in un allestimento permanente e originale di nicchie, fossi e slarghi in cui s’addensano biotopi minimi e specie colonizzatrici, ma anche perché ciò completa, in continuità con le scelte di questa Amministrazione Provinciale e di quelle locali interessate, il recupero delle fortificazioni del campo trincerato di Mestre, un disegno complessivo che fa rivivere i luoghi della guerra trasformandoli ed eleggendoli a luogo di incontro e di conoscenza.
Nel caso di forte Sirtori c’è anche qualcosa di più: questo “luogo della guerra”, addensato di messaggi bellicosi come le altre strutture militari, se trasformato in Centro per la Didattica della Natura può evocare, per opposizione di valore e di destino, quelli radicalmente pacificanti che la natura sa rendere riconoscibili e praticabili attraverso l’osservazione attenta e la conoscenza storica del proprio territorio: questo è particolarmente vero dove i cambiamenti radicali, come a Spinea, hanno lacerato e disperso culture di relazione e microeconomie, dove l’ideologia dello sviluppo ad ogni costo non ha solo richiesto un pedaggio pesante dentro le fabbriche, ma ha condizionato anche il paesaggio umano circostante e di conseguenza c’è stata una continuità visibile tra l’idea di una modernità aggressiva (mirabilmente sintetizzata dalla macchina da guerra o dalla fabbrica potente) e una gestione che ha scardinato gli equilibri naturali del territorio con lo stesso effetto di un bombardamento.
Ricomporre gli equilibri della natura, recuperare il senso della memoria storica locale, focalizzare un’identità collettiva al di fuori di derive nostalgiche, sono tutti obiettivi possibili ed è anzi auspicabile che tutto questo avvenga attraverso i processi critici della conoscenza di quanto ci riguarda, senza pregiudizi e con l’ottimismo di chi sa bene che ogni trasformazione, anche la più devastante, assegna all’intelligenza del fare un margine utile per migliorare il mondo in cui viviamo.